Un grumo maligno t’aveva tolto la parola e inchiodato su una sedia a rotelle. Non era riuscito, però, a spegnere i grandi occhi neri che ti ostinavi a spalancare, ora vuoti, ora traboccanti di tristezza o di rabbia.
Venivo a trovarti.
Dopo avrei pensato che potevo farlo più spesso, più a lungo, ma forse il cuore mi si stringeva troppo a vederti così.
Tu e io eravamo molto simili. Pensa che alcuni, persone che incontro adesso che gli anni si sono accatastati anche sulle mie spalle, dicono che ti assomiglio così tanto che al solo guardarmi s’indovina che sono tuo figlio.
Ma era soprattutto per qualcosa di interno che noi due ci sapevamo uguali; come se, uno di fronte all’altro, fossimo due specchi che riflettevano un identico modo di sentire, un modo tanto intenso quanto timido e schivo, vergognoso di mostrarsi, incapace di tradursi in gesti che si vedessero e si sentissero, prigioniero… mi avevi insegnato tu ad essere così? o forse, chissa? quell’impaccio stava scolpito nei cromosomi che mi passasti…
Era per questo, vero? che avevamo da sempre affidato alle parole (agli scritti, addirittura!) il compito di tessere la trama fittissima del legame che ci univa. Ora quel ponte incorporeo, così etereo e così prezioso, era distrutto, necrotizzato in un angolo del tuo cervello. C’era l’abisso del silenzio.
Eppure, sai, oggi mi accade di pensare che quel maledetto grumo un regalo ce lo fece.
Fu una mattina…
Eravamo da soli, muti davanti a quel baratro.
Mi accorsi che avevi la barba lunga… una sciocchezza… la mente è strana, a volte.
Non so come, non ero io ad occuparmene, ma all’improvviso mi trovai a sospingere quella tua carrozzina fino al bagno e lì ti lavai il volto, ti insaponai e, maldestro, con cura infinita, ti sbarbai.
Non erano parole, quelle; erano soltanto le mie mani sul tuo viso, ma il lampo cristallino che ad un tratto ti illuminò gli occhi mi disse con certezza che anche tu, in quel momento, stavi tornando a tutte le mattine in cui, da bambino, amavo starmene seduto in quello stesso bagno a guardarti mentre ti radevi e aspettavo che, come sempre, a un certo punto mi spennellassi un po’ di schiuma sulla punta del naso e ci mettessimo a ridere.
Quello fu un attimo, è vero, ma fu un attimo di elementare, semplicissima felicità.
Sai? Nella palude grigia e sterminata che dovetti attraversare quando, di lì a poco, la morte venne a liberarti, il ricordo di quella mattina ha preso a brillare. Sempre più forte. Abbagliante. Come una gemma. Come un faro nella notte.
Da allora è mio. E lo tengo stretto.
Venivo a trovarti.
Dopo avrei pensato che potevo farlo più spesso, più a lungo, ma forse il cuore mi si stringeva troppo a vederti così.
Tu e io eravamo molto simili. Pensa che alcuni, persone che incontro adesso che gli anni si sono accatastati anche sulle mie spalle, dicono che ti assomiglio così tanto che al solo guardarmi s’indovina che sono tuo figlio.
Ma era soprattutto per qualcosa di interno che noi due ci sapevamo uguali; come se, uno di fronte all’altro, fossimo due specchi che riflettevano un identico modo di sentire, un modo tanto intenso quanto timido e schivo, vergognoso di mostrarsi, incapace di tradursi in gesti che si vedessero e si sentissero, prigioniero… mi avevi insegnato tu ad essere così? o forse, chissa? quell’impaccio stava scolpito nei cromosomi che mi passasti…
Era per questo, vero? che avevamo da sempre affidato alle parole (agli scritti, addirittura!) il compito di tessere la trama fittissima del legame che ci univa. Ora quel ponte incorporeo, così etereo e così prezioso, era distrutto, necrotizzato in un angolo del tuo cervello. C’era l’abisso del silenzio.
Eppure, sai, oggi mi accade di pensare che quel maledetto grumo un regalo ce lo fece.
Fu una mattina…
Eravamo da soli, muti davanti a quel baratro.
Mi accorsi che avevi la barba lunga… una sciocchezza… la mente è strana, a volte.
Non so come, non ero io ad occuparmene, ma all’improvviso mi trovai a sospingere quella tua carrozzina fino al bagno e lì ti lavai il volto, ti insaponai e, maldestro, con cura infinita, ti sbarbai.
Non erano parole, quelle; erano soltanto le mie mani sul tuo viso, ma il lampo cristallino che ad un tratto ti illuminò gli occhi mi disse con certezza che anche tu, in quel momento, stavi tornando a tutte le mattine in cui, da bambino, amavo starmene seduto in quello stesso bagno a guardarti mentre ti radevi e aspettavo che, come sempre, a un certo punto mi spennellassi un po’ di schiuma sulla punta del naso e ci mettessimo a ridere.
Quello fu un attimo, è vero, ma fu un attimo di elementare, semplicissima felicità.
Sai? Nella palude grigia e sterminata che dovetti attraversare quando, di lì a poco, la morte venne a liberarti, il ricordo di quella mattina ha preso a brillare. Sempre più forte. Abbagliante. Come una gemma. Come un faro nella notte.
Da allora è mio. E lo tengo stretto.