"Consumare preferibilmente entro..." - Racconti

"Consumare preferibilmente entro..." - Racconti
seconda edizione - 2012 - versione cartacea

formato PDF

formato PDF
versione e-book

sabato 13 dicembre 2008

Oltre l'abisso

"Oltre l'abisso" è una pagina di diario.

Un grumo maligno t’aveva tolto la parola e inchiodato su una sedia a rotelle. Non era riuscito, però, a spegnere i grandi occhi neri che ti ostinavi a spalancare, ora vuoti, ora traboccanti di tristezza o di rabbia.
Venivo a trovarti.
Dopo avrei pensato che potevo farlo più spesso, più a lungo, ma forse il cuore mi si stringeva troppo a vederti così.
Tu e io eravamo molto simili. Pensa che alcuni, persone che incontro adesso che gli anni si sono accatastati anche sulle mie spalle, dicono che ti assomiglio così tanto che al solo guardarmi s’indovina che sono tuo figlio.
Ma era soprattutto per qualcosa di interno che noi due ci sapevamo uguali; come se, uno di fronte all’altro, fossimo due specchi che riflettevano un identico modo di sentire, un modo tanto intenso quanto timido e schivo, vergognoso di mostrarsi, incapace di tradursi in gesti che si vedessero e si sentissero, prigioniero… mi avevi insegnato tu ad essere così? o forse, chissa? quell’impaccio stava scolpito nei cromosomi che mi passasti…
Era per questo, vero? che avevamo da sempre affidato alle parole (agli scritti, addirittura!) il compito di tessere la trama fittissima del legame che ci univa. Ora quel ponte incorporeo, così etereo e così prezioso, era distrutto, necrotizzato in un angolo del tuo cervello. C’era l’abisso del silenzio.
Eppure, sai, oggi mi accade di pensare che quel maledetto grumo un regalo ce lo fece.
Fu una mattina…
Eravamo da soli, muti davanti a quel baratro.
Mi accorsi che avevi la barba lunga… una sciocchezza… la mente è strana, a volte.
Non so come, non ero io ad occuparmene, ma all’improvviso mi trovai a sospingere quella tua carrozzina fino al bagno e lì ti lavai il volto, ti insaponai e, maldestro, con cura infinita, ti sbarbai.
Non erano parole, quelle; erano soltanto le mie mani sul tuo viso, ma il lampo cristallino che ad un tratto ti illuminò gli occhi mi disse con certezza che anche tu, in quel momento, stavi tornando a tutte le mattine in cui, da bambino, amavo starmene seduto in quello stesso bagno a guardarti mentre ti radevi e aspettavo che, come sempre, a un certo punto mi spennellassi un po’ di schiuma sulla punta del naso e ci mettessimo a ridere.
Quello fu un attimo, è vero, ma fu un attimo di elementare, semplicissima felicità.
Sai? Nella palude grigia e sterminata che dovetti attraversare quando, di lì a poco, la morte venne a liberarti, il ricordo di quella mattina ha preso a brillare. Sempre più forte. Abbagliante. Come una gemma. Come un faro nella notte.
Da allora è mio. E lo tengo stretto.

venerdì 5 dicembre 2008

Picciridda

Vedova, figli grandi e maritati, “Donna Cettina” è vecchia assai.
Pure che sta a dritta pi scummissa, la domenica si conza: si pettina per bene, si veste tutta pulita, si impupa magari con la collana e gli orecchini, e se ne va a la Missa.
Dopo un’ora, quannu u parrinu dice: “Andate in pace”, idda sinni nesce.
Oggi c’è cavuru, u sule spacca li petri.
Cettina, caminannu accussì lenta che pare ‘na tartaruga, come Dio vuole arriva a la punta del pontile. Supra lu mari.
Accura a non sciddicari, scende la scaletta di cemento e s’assetta sull’ultimo gradino… vicinu all’acqua.
S’arriposa n’anticchia, Cettina. È grossa e ci venne l’affanno.
S’asciuca il sudore con un fazzoletto di lino ricamato mentre ‘na sciusciatina di vento le scummigghia un poco i capiddi bianchi.
Il sole è accecante. Lei tiene l’occhi strizzati. Ha la faccia accussì fitta di rughe, che pare ‘na terra arsa, tutta spaccata.
Tutt’assieme in quegl’occhi s’adduma un lampo… un lampo tale e quale nu focu d’artificio.
Cettina si toglie ‘na scarpa. Allunga lu piede, sempre di più… e finalmente arrinesce a tuccari lu mari cu la punta delle dita contorte dagli anni.
Ecco: chi la taliasse na ‘stu minutu, putissi viriri, fra mille rughe, lu sorrisu d’una picciridda.

martedì 18 novembre 2008

La mia finestra

“La vita è un labirinto in cui è impossibile entrare”
(F. Kafka)

C’è una finestra nella mia casa tutta muri. È chiusa da sbarre indistruttibili che non ricordo di averci messo né quando, tanto che a volte dubito di averlo fatto proprio io. Allora capita che mi lasci andare a sterili pensieri: “Perché avrebbero dovuto? E chi?”, domande del genere, domande che a mente serena mi stupisco di formulare e che in ogni caso ci si dovrebbe rassegnare a lasciare senza risposte.
La porta? Sì, c’è anche quella, piazzata sulla parete opposta a quella della finestra. Si apre e si chiude regolarmente, per entrare e uscire. È di un legno scuro, robusto, ha la serratura e una catenella di sicurezza che gestisco a mio piacimento. È una porta di cui non posso lamentarmi.
Però, nonostante tutto, se un giorno arriverà l’ordinanza: “SCEGLIERE FRA PORTA E FINESTRA”, io eliminerò la porta.
Non so cosa faranno gli altri, penso che molti si terranno la porta dicendo che altrimenti resterebbero chiusi dentro, da soli, per tutta la vita. Una considerazione ineccepibile se non fosse per il fatto che, personalmente, lì fuori io credo di esserci già stato.
Dev’essere accaduto molto tempo fa. Ho dimenticato quasi tutto. M’è restata solo una specie di sensazione, non può definirsi un ricordo, né un’immagine, né un’idea… è una cosa vaga; una nausea, una noia, ecco, forse si potrebbe chiamarla in questo modo.
Stando così le cose, devo ancora chiedermi perché tengo tanto alla finestra.
Da lì entra ed esce tutta l’aria che respiro, ma ipotizzando che questa necessità mi venisse garantita per altra via, so che lo stesso la finestra, per me, sarebbe ancora troppo importante, addirittura vitale, anche se non so farmene una chiara ragione.
Perciò continuo a guardarla e ad essere grato della sua esistenza.