"Consumare preferibilmente entro..." - Racconti

"Consumare preferibilmente entro..." - Racconti
seconda edizione - 2012 - versione cartacea

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sabato 21 marzo 2009

Buone notizie

Gaspare, che ha passato ottantadue anni con la zappa in mano e la schiena a rosolarsi sotto il sole, è in coma.
I medici dell'ospedale, dopo aver tentato di tutto, allargano infine le braccia e i familiari se lo riportano a casa, lo sistemato sul letto, con la bombola d'ossigeno, chiamano il prete e lo vegliano rassegnati all'inevitabile.
Nel piccolo appartamento al piano terra trascorrono così lunghi giorni scanditi dalla recita del rosario per i moribondi (quello che, nell'intenzione di chi prega, invoca un'agonia breve e una rapida ascesa al paradiso) e dai tristi preparativi come l'acquisto delle scarpe nuove e l'accordo col ristorante per il “cunsulo”, il cibo “consolatorio” da consumare dopo il trapasso.
Alle undici di sera del quarto giorno, improvvisamente, Gaspare apre gli occhi, si pone a sedere in mezzo al letto e dice: “haiu pitittu” (“ho fame”).
I familiari, increduli, esterrefatti (c'è anche qualcuno che sviene), gli portano un piatto di minestrina. Lui se la mangia tutta. L'indomani, però, dice chiaro e tondo che vuole salsiccia con patate al forno, il suo piatto preferito, e nessuno ha il coraggio di negarglieli.
Racconta. Ha attraversato una specie di tunnel e ha raggiunto un posto che assomiglia in tutto e per tutto a un luminoso giardino. C'erano figure piuttosto indistinte, luminose, con cui ha parlato. Erano i suoi cari, defunti. Stavano bene. E anche lui, lo ricorda senza incertezze, provava il più assoluto, divino benessere.

Gaspare è quello che si direbbe un “testimone attendibile”. Un vecchio contadino analfabeta, un uomo concreto. Non è mai stato un gran frequentatore della parrocchia e delle cose religiose, giusto a Messa per Natale, pasqua e qualche altra “festa grande”, e soprattutto non sa nulla delle esperienze, da più parti raccontate e del tutto sovrapponibili alla sua, di altre persone che, proprio come lui, si direbbero “tornate” da questa sorta di area di transizione fra vita e morte, da questo balcone affacciato su... sull'aldilà?
Buone notizie, insomma.

sabato 14 marzo 2009

Pietre

Bene, eccoci qua, dico sottovoce, e un gabbiano si volta a guardarmi un istante. Come se capisse.
Poi torna a fissare l'orizzonte con l'aria di uno che non ha voglia di nulla.
È una mattina grigia, il mare sciaborda pigro.
Male, molto male, dico sottovoce, e il gabbiano si volta di nuovo a guardarmi, ma stavolta resta lì, con gli occhietti fissi su di me e la mia bottiglia.
Che ci fai tutto solo? gli chiedo; dove sono gli altri?
Lui piega appena un po' la testa.

Sono a pezzi.
Lascio perdere il gabbiano, mi siedo sui ciottoli del bagnasciuga. L'umidità trapana fino alle mutande, fredda ghiacciata.
Neanche una barca, il mare un deserto.
Lui sempre lì a fissarmi. Sembra vecchio, non mi intendo di gabbiani, ma questo sembra proprio un vecchio gabbiano stanco; immobile, pesante, quasi gonfio.
Tiro giù un altro sorso. Giocherello coi ciottoli, ne butto qualcuno a mare. Piccole pietre levigate biancastre che stanno qua.
Ehi, gli faccio, ci pensi che magari mille anni fa qui era tutto uguale come adesso tranne che noi due non c'eravamo? Mica siamo pietre, noi.
Non risponde. Un gabbiano non può rispondere. È tornato a guardare il mare.
Sai di Jonathan, no? Lo sanno tutti: “Il gabbiano Jonathan Livingston”, un best seller pazzesco, un eroe di gabbiano, il supergabbiano! Non gli bastava volare, capisci? No, troppo poco, troppo facile. Andare avanti, andare oltre il limite, ecco quello che si dovrebbe fare, caro mio.
Ero poco più che un ragazzo quando lo lessi. E lo amai. Il mondo scintillava, allora, e io morivo dalla voglia di buttarmici dentro. Tutto liscio, tutto bello…
E tu? Tu c'hai provato, almeno?
Non ti ci vedo proprio. Ti sarai accontentato di svolazzare qua e là alla meno peggio, giusto il necessario per acchiappare la tua sardina quotidiana e tornare a sonnecchiare.
Butto qualche altro ciottolo in acqua. Pluf. Plufff.
Ho la gola asciutta. Bevo ancora. Lancio in mare la bottiglia vuota. La corrente comincia a trascinarla mollemente verso il largo. La seguo con lo sguardo, ogni tanto un luccichio, sempre più lontano.
Chissà che fine avrà fatto... dico di Jonathan. Quanto vivete voi gabbiani? Un anno? Dieci? Cento?
Il gabbiano è ancora lì, impassibile. Una statua.
Pluf.
Plufff.