"Consumare preferibilmente entro..." - Racconti

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seconda edizione - 2012 - versione cartacea

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domenica 19 aprile 2009

Maria

Sto bene, amico mio. Certo, bene come può starlo un uomo anziano.
Che dici? Un’ombra?
Lo so. La conosco.
Mi è difficile parlarne; non l’ho mai fatto.
Sai, un po’ come tutti, anch’io mi sento sempre attratto dai posti dove sono vissuto, le case e i loro dintorni, le persone… tornarci, rivederli, anche solo ricordarli, è un po’ come un tenersi insieme, aggrapparsi a un effimero filo di Arianna nell’illusione di riuscire a non perdersi.
Ebbene, c’è un posto che per me è molto di più.

È una storia lontana cinquant’anni, ma da allora è lì che torno, ogni giorno, ed è lì che continuerò a tornare per tutti i giorni che mi resterà da vivere.
Me ne andai come un ladro. Una mattina insolitamente fredda per quelle latitudini, mentre un mare cupo tormentava la prua del battello.
Sembrava che l’isola non si allontanasse mai. Distinguevo ancora il campanile che svettava allampanato fra le basse, coloratissime costruzioni di Calheta, le barche impaurite, ridossate alla meno peggio, la capanna di Elisio il matto… e laggiù la nostra casa.
Immaginavo Maria, in piedi dietro la finestra, stretta nelle sue stesse braccia come ogni volta che, nonostante mi affannassi a rassicurarla, veniva assalita dal presagio di quel momento. “Un giorno te ne andrai”, diceva, e si rifugiava nel patio, testarda e triste come una bambina.

Avevo vissuto quasi due anni a Maio. Un’isoletta di Capoverde.
Cinquant’anni fa era un luogo sperduto, selvaggio; una manciata di rocce gettata nell’oceano.
Sulle spiagge le uniche impronte, per centinaia e centinaia di metri, erano quelle fittissime degli uccelli marini e il solo rumore era lo sciabordio perpetuo delle onde. La sera, mentre il sole radente accendeva la sabbia di riflessi metallici, vedevi rientrare nel porticciolo le barche cariche di enormi pesci, di aragoste e polpi, e l’aria profumava.
Ero poco più che un ragazzo inquieto, quando arrivai. Avevo ventitre anni.
Il giorno dopo la laurea lasciai il diploma nello studio di mio padre, sulla scrivania, e scomparvi. Allora sarei fuggito a qualsiasi prezzo…
Maio fu per caso. Avrebbe potuto essere Santo Antao, o Fogo, comunque una delle più piccole. Un nascondiglio nel mondo.
Maria cantava nell’unica balera del paese. Uno stanzone fumoso coi tavolini e le sedie sgangherate, illuminato da sparute candele, in cui gli isolani movimentavano le serate dei fine settimana.
Era una creola con due grandi occhi verdi, tranquilli, dolcissimi, e un sorriso capace di lenire la ferita più profonda. Conosci la musica di Capoverde? È qualcosa che ti entra nel sangue. E Maria era quella musica. Era la dolce malinconia delle mornas, la vivacità, l’esuberanza delle coladeiras, e la selvaggia sensualità dei ritmi africani. Lo sentii dritto nelle viscere, distintamente, e lei, appena smise di cantare, si avvicinò, si sedette di fronte a me e disse soltanto: “nha nomi e Maria Margarida”.
Venne a casa mia quella sera stessa, come se fosse la cosa più facile e naturale del mondo. E non se ne andò più: “Sono la tua donna”, diceva.

Mi costrinsi a rimpatriare. Fu dopo aver ricevuto una lettera da Piero, l’unico che sapesse dov’ero. Mio padre s’era impiccato.
L’isola era ancora lì, davanti a me, vicina. Non riuscivo a voltarmi, a varcare il boccaporto e chiudermi alle spalle quei due anni di selvaggia bellezza. Fissavo la scia lentissima del battello e continuavo a dirmi che sarebbe bastato un balzo. Le gambe, la mente, ciascuna fibra del mio corpo mi implorava di saltare…

Mi sono sempre detto che tornai per mia madre, o per il senso di colpa del quale, per quanto provassi a convincermi che non aveva ragioni, non riuscivo a liberarmi. Chissà.
Via via anche la ricerca di una risposta ha perso significato. Maio era stata un momento, un attimo in cui infiniti particolari, tutti insieme, avevano congiurato per generare un sogno. Certo, la gioventù, l’energia, la passione travolgente di Maria, ma anche le più piccole cose, il soffio tiepido dell’aliseo, il canto delle megattere in amore, e quell’oceano sterminato…