Da bambino avevo una chitarrina con una piccola manovella metallica che fuoriusciva lateralmente. Bastava girarla e la chitarrina suonava. Una musichetta da film western, di quelle strimpellate dai pianisti nei saloon pieni di fumo, di whisky e cow boys, “Oh Susanna”, qualcosa del genere.
Se giravo velocemente, la musichetta andava velocemente. Se rallentavo, rallentava. Ero padrone.
Potevo anche centellinarla, nota per nota. Dlen... dlin... lentissima, tanto che la melodia non si poteva più riconoscere. Note staccate, prive di senso.
A un certo punto, in un modo o in un altro, il guscio di plastica della chitarrina si ruppe.
Il meccanismo era semplice e affascinante.
La manovella faceva girare un cilindro che a sua volta trascinava un nastro, una specie di striscia di gomma disseminata di piccoli spuntoni, dei pallini, sempre di gomma. La disposizione di questi ultimi, apparentemente caotica, era invece la chiave segreta della musica: ogni pallino, giunto all'estremità del percorso del nastro, seguendo un ordine ben preciso, andava ad azionare la vibrazione della lamella di metallo che gli corrispondeva... ed emetteva la propria nota: dlen... dlin... dlon... ogni pallino aveva il suo posto, ed erano a turno. Perfetto.
Ne macchiai uno con l'inchiostro. Blu. Il blu è sempre stato il mio colore.
Gira, gira, ecco: il pallino blu è salito. Gira, gira, il blu avanza. Posso rallentare, e lui allora avanza piano. Poi, comunque, arriva alla fine, contro la sua lamella. Fa “dlen” e sparisce, passa sulla faccia inferiore, nascosta, del nastro. Fino al prossimo giro.
Poi c'era il caleidoscopio, altro aggeggio magico, affascinante, capace di farmi perdere la cognizione del tempo. Però lì era diverso.
A ogni scossetta, anche la più impercettibile, il disegno cambiava, ma non c'era verso di far tornare un disegno che s'era perso. Poteva assomigliargli, certo, ma non era mai lo stesso di prima. Lì non mi sentivo padrone di niente. Il caleidoscopio, in fondo, era crudele. Non perdonava.
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martedì 12 maggio 2009
mercoledì 18 febbraio 2009
Nuvola Rossa
Per i winchester dei nordisti, bene appostati sulle torrette di guardia, è un giochetto da ragazzi: quelli, gli indiani, i loro cavalli, sono carne da macello.
Si buttano avanti a ondate, traboccanti di coraggio e di rabbia, ma come le ondate si spezzano su una scogliera, così loro crepano ai piedi delle palizzate.
Gli indiani, si sa, non si arrendono. Gli indiani, prima di sera, saranno morti tutti.
Andrà così anche questa volta. È solo così che può andare.
Lo splendido baio, vedo il suo sudore denso, biancastro, vedo le narici e gli occhi spalancati dal terrore, ha uno scarto brusco, imprevedibile.
Nuvola Rossa è stato sbalzato a terra, la pallottola che l’avrebbe ucciso s’è conficcata profonda nella sabbia.
Tutt’intorno grida selvagge si mescolano al sangue, al sibilo dei proiettili. Sono urla di dolore e di vendetta.
Lui potrebbe acquattarsi, restare nascosto dietro il cespuglio, attendere la notte e forse, col favore del buio, avrà salva la vita.
Ma Nuvola Rossa è un guerriero, un guerriero vero. Non sa che farsene di una vita da schiavo.
Dà fuoco al cespuglio, allora, e avvolta una pezza oleosa attorno alla punta di una freccia, la incendia. Tende il potente arco con tutte le sue forze, lo tende fin quasi a spezzarlo, e infine scaglia la freccia infuocata.
L’esempio del Grande Capo riempie di coraggio i suoi uomini, si diffonde fulmineo. In breve un diluvio di fuoco si abbatte su Fort Yukon.
I nordisti non hanno scampo, sono topi in trappola. Molti bruciano vivi; quelli che tentano la sortita cadono massacrati dai tomawack, i pugnali fanno scempio di scalpi.
Il tramonto, finalmente, si sta tingendo di rosso.
“Ehi! Cos’è questa puzza di bruciato? Che stai combinandooo?” Gli urlacci provengono dalla cucina.
Svelto, faccio sparire la scatola dei fiammiferi e rovescio un bicchiere d’acqua sul piccolo incendio. Sono eccitato, felice. Fino a oggi, da sempre, avevo automaticamente continuato a riprodurre, coi miei soldatini, gli inesorabili massacri di indiani che i tanti film western mi hanno insegnato. Stasera, esausto, mi addormenterò sulla pelle dell’orso perché in un mondo infestato da visi pallidi e lingue biforcute, ho scoperto che io, in realtà, sono un selvaggio. Un coraggiosissimo, invincibile selvaggio con la pelle rossa.
– L’autore… dorme in una fotografia del 1960 -
sabato 13 dicembre 2008
Oltre l'abisso
"Oltre l'abisso" è una pagina di diario.
Un grumo maligno t’aveva tolto la parola e inchiodato su una sedia a rotelle. Non era riuscito, però, a spegnere i grandi occhi neri che ti ostinavi a spalancare, ora vuoti, ora traboccanti di tristezza o di rabbia.
Venivo a trovarti.
Dopo avrei pensato che potevo farlo più spesso, più a lungo, ma forse il cuore mi si stringeva troppo a vederti così.
Tu e io eravamo molto simili. Pensa che alcuni, persone che incontro adesso che gli anni si sono accatastati anche sulle mie spalle, dicono che ti assomiglio così tanto che al solo guardarmi s’indovina che sono tuo figlio.
Ma era soprattutto per qualcosa di interno che noi due ci sapevamo uguali; come se, uno di fronte all’altro, fossimo due specchi che riflettevano un identico modo di sentire, un modo tanto intenso quanto timido e schivo, vergognoso di mostrarsi, incapace di tradursi in gesti che si vedessero e si sentissero, prigioniero… mi avevi insegnato tu ad essere così? o forse, chissa? quell’impaccio stava scolpito nei cromosomi che mi passasti…
Era per questo, vero? che avevamo da sempre affidato alle parole (agli scritti, addirittura!) il compito di tessere la trama fittissima del legame che ci univa. Ora quel ponte incorporeo, così etereo e così prezioso, era distrutto, necrotizzato in un angolo del tuo cervello. C’era l’abisso del silenzio.
Eppure, sai, oggi mi accade di pensare che quel maledetto grumo un regalo ce lo fece.
Fu una mattina…
Eravamo da soli, muti davanti a quel baratro.
Mi accorsi che avevi la barba lunga… una sciocchezza… la mente è strana, a volte.
Non so come, non ero io ad occuparmene, ma all’improvviso mi trovai a sospingere quella tua carrozzina fino al bagno e lì ti lavai il volto, ti insaponai e, maldestro, con cura infinita, ti sbarbai.
Non erano parole, quelle; erano soltanto le mie mani sul tuo viso, ma il lampo cristallino che ad un tratto ti illuminò gli occhi mi disse con certezza che anche tu, in quel momento, stavi tornando a tutte le mattine in cui, da bambino, amavo starmene seduto in quello stesso bagno a guardarti mentre ti radevi e aspettavo che, come sempre, a un certo punto mi spennellassi un po’ di schiuma sulla punta del naso e ci mettessimo a ridere.
Quello fu un attimo, è vero, ma fu un attimo di elementare, semplicissima felicità.
Sai? Nella palude grigia e sterminata che dovetti attraversare quando, di lì a poco, la morte venne a liberarti, il ricordo di quella mattina ha preso a brillare. Sempre più forte. Abbagliante. Come una gemma. Come un faro nella notte.
Da allora è mio. E lo tengo stretto.
Venivo a trovarti.
Dopo avrei pensato che potevo farlo più spesso, più a lungo, ma forse il cuore mi si stringeva troppo a vederti così.
Tu e io eravamo molto simili. Pensa che alcuni, persone che incontro adesso che gli anni si sono accatastati anche sulle mie spalle, dicono che ti assomiglio così tanto che al solo guardarmi s’indovina che sono tuo figlio.
Ma era soprattutto per qualcosa di interno che noi due ci sapevamo uguali; come se, uno di fronte all’altro, fossimo due specchi che riflettevano un identico modo di sentire, un modo tanto intenso quanto timido e schivo, vergognoso di mostrarsi, incapace di tradursi in gesti che si vedessero e si sentissero, prigioniero… mi avevi insegnato tu ad essere così? o forse, chissa? quell’impaccio stava scolpito nei cromosomi che mi passasti…
Era per questo, vero? che avevamo da sempre affidato alle parole (agli scritti, addirittura!) il compito di tessere la trama fittissima del legame che ci univa. Ora quel ponte incorporeo, così etereo e così prezioso, era distrutto, necrotizzato in un angolo del tuo cervello. C’era l’abisso del silenzio.
Eppure, sai, oggi mi accade di pensare che quel maledetto grumo un regalo ce lo fece.
Fu una mattina…
Eravamo da soli, muti davanti a quel baratro.
Mi accorsi che avevi la barba lunga… una sciocchezza… la mente è strana, a volte.
Non so come, non ero io ad occuparmene, ma all’improvviso mi trovai a sospingere quella tua carrozzina fino al bagno e lì ti lavai il volto, ti insaponai e, maldestro, con cura infinita, ti sbarbai.
Non erano parole, quelle; erano soltanto le mie mani sul tuo viso, ma il lampo cristallino che ad un tratto ti illuminò gli occhi mi disse con certezza che anche tu, in quel momento, stavi tornando a tutte le mattine in cui, da bambino, amavo starmene seduto in quello stesso bagno a guardarti mentre ti radevi e aspettavo che, come sempre, a un certo punto mi spennellassi un po’ di schiuma sulla punta del naso e ci mettessimo a ridere.
Quello fu un attimo, è vero, ma fu un attimo di elementare, semplicissima felicità.
Sai? Nella palude grigia e sterminata che dovetti attraversare quando, di lì a poco, la morte venne a liberarti, il ricordo di quella mattina ha preso a brillare. Sempre più forte. Abbagliante. Come una gemma. Come un faro nella notte.
Da allora è mio. E lo tengo stretto.
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