"Consumare preferibilmente entro..." - Racconti

"Consumare preferibilmente entro..." - Racconti
seconda edizione - 2012 - versione cartacea

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martedì 12 maggio 2009

Due vecchi giocattoli

Da bambino avevo una chitarrina con una piccola manovella metallica che fuoriusciva lateralmente. Bastava girarla e la chitarrina suonava. Una musichetta da film western, di quelle strimpellate dai pianisti nei saloon pieni di fumo, di whisky e cow boys, “Oh Susanna”, qualcosa del genere.
Se giravo velocemente, la musichetta andava velocemente. Se rallentavo, rallentava. Ero padrone.
Potevo anche centellinarla, nota per nota. Dlen... dlin... lentissima, tanto che la melodia non si poteva più riconoscere. Note staccate, prive di senso.
A un certo punto, in un modo o in un altro, il guscio di plastica della chitarrina si ruppe.
Il meccanismo era semplice e affascinante.
La manovella faceva girare un cilindro che a sua volta trascinava un nastro, una specie di striscia di gomma disseminata di piccoli spuntoni, dei pallini, sempre di gomma. La disposizione di questi ultimi, apparentemente caotica, era invece la chiave segreta della musica: ogni pallino, giunto all'estremità del percorso del nastro, seguendo un ordine ben preciso, andava ad azionare la vibrazione della lamella di metallo che gli corrispondeva... ed emetteva la propria nota: dlen... dlin... dlon... ogni pallino aveva il suo posto, ed erano a turno. Perfetto.
Ne macchiai uno con l'inchiostro. Blu. Il blu è sempre stato il mio colore.
Gira, gira, ecco: il pallino blu è salito. Gira, gira, il blu avanza. Posso rallentare, e lui allora avanza piano. Poi, comunque, arriva alla fine, contro la sua lamella. Fa “dlen” e sparisce, passa sulla faccia inferiore, nascosta, del nastro. Fino al prossimo giro.

Poi c'era il caleidoscopio, altro aggeggio magico, affascinante, capace di farmi perdere la cognizione del tempo. Però lì era diverso.
A ogni scossetta, anche la più impercettibile, il disegno cambiava, ma non c'era verso di far tornare un disegno che s'era perso. Poteva assomigliargli, certo, ma non era mai lo stesso di prima. Lì non mi sentivo padrone di niente. Il caleidoscopio, in fondo, era crudele. Non perdonava.

mercoledì 6 maggio 2009

Percorsi


Su una spiaggia (Ulisse)
Uno sta su una spiaggia finché viene il giorno che non può più farne a meno: mette insieme quattro tronchi d’albero, una vela improvvisata, e parte.
Il sole e la salsedine gli induriscono la pelle; i giorni, i mesi, allungano i suoi capelli e infoltiscono un’ispida barba; la fame e la sete, le sorprese e le paure gli scavano l’anima e spalancano gli occhi.
In qualche modo, comunque, allo stremo delle forze, approda su un’isola i cui abitanti, nonostante parlino una lingua a lui sconosciuta, si rivelano ospitali.
Il nostro uomo, a conti fatti, non avrebbe di che lamentarsi: mangia, beve, dorme, ha dove ripararsi dalle piogge e dal sole, ha terra da coltivare, animali da cacciare e ragazze dolcissime per le sue notti.
Eppure, ed è questo il punto, verrà il giorno che non potrà più farne a meno: metterà insieme quattro tronchi d’albero, una vela improvvisata, e partirà.



* * *

Un viaggio (Sisifo)
22.361. Ventiduemilatrecentosessantuno chilometri in quattro anni. Tanto era il tempo ch'era passato da quando il giovane T, mettendosi sul groppone settantadue comode rate mensili, aveva comprato quel motorino.
Cominciò ad almanaccare su quella cifra.
Da Palermo a Catania erano all'incirca duecento chilometri, per Milano erano duemila; più o meno.
Minchia! Pensò. Ho fatto tanta strada che sarei potuto andare e tornare da Milano più di cinque volte. E magari, rinunciando a tornare, sarei potuto arrivare, che so, anche fino in Cina!
Era troppo.
Tutti quei chilometri, quella potenziale “Palermo-Pechino on the road”, se li era macinati senza accorgersene, giorno dopo giorno, da casa sua al lavoro e viceversa.
C'era una bella differenza... lui, ad esempio, si figurava un cavallo di razza e un mulo; quello imponente, tutto bardato e sfolgorante, questo dimesso, opaco... stupido.
E ci ragionava sopra.
Trascorrono gli anni. Nel frattempo T. non va in Cina. E nemmeno a Milano.
Il sole continua implacabile a sorgere e tramontare, e a lui, così gli sembra, non resta che continuare a fare avanti e indietro sui suoi stupidi muli.
Un giorno, fermo a un semaforo, gli torna in mente una frase: “Non è il cammino che è difficile, ma il difficile che è cammino”. Non ricorda neppure chi ne fosse l'autore. Stava stampata su una piccola cartolina che raffigurava delle cime di alberi con lo sfondo di un cielo azzurrissimo. Niente di speciale, ma da ragazzo quell'immagine gli piaceva, tanto che per un po' l'aveva tenuta appiccicata in un angolino dello specchio del bagno e la mattina, mentre ancora assonnato si radeva in fretta e furia, gli dava una sbirciata.
Certo, ormai T. è un uomo anziano. Da tempo non fa più caso alla faccenda dei chilometri. Sono un mucchio ed è inutile star lì a contarli. In ogni modo, immagina di averne accumulati così tanti che, a occhio e croce, avrebbe potuto fare il giro del mondo. Invece... invece niente. Solo e sempre avanti e indietro.
Un rabbioso colpo di clacson lo riscuote. Sovrappensiero, non s'è accorto che è scattato il semaforo verde. Deve ripartire. In fretta.
* * *

Nel labirinto (né Ulisse, né Sisifo)
Ho provato a entrare nel labirinto. Da fuori è una costruzione insignificante, ma è l'unica cosa che c'è da vedere in questa città. È un cubo grigio seminterrato. Niente aperture, se si eccettua la porticina d'ingresso. A modo suo ha un fascino misterioso. Fra parentesi, la città è piena di telecamere neanche tanto nascoste, e di megafoni senza requie. Spero che almeno nel labirinto non ce ne siano.
Arianna, chiamiamola così, m'ha dato il filo. Bello robusto. Me l'ha attaccato alla vita con un inestricabile groviglio di nodi. Mi ha detto che l'altro capo lo teneva lei, per sicurezza.
Dopo un breve tratto il filo dev'essere finito. Tiravo ma non riuscivo più ad andare avanti. È stato gioco forza tornare fuori. Ho chiesto in giro. Tutti m'hanno detto che, se proprio ci tenevo, non c'era altro da fare. Così ho recuperato un coltello affilato, ho tagliato il filo di netto e mi sono ributtato dentro il labirinto. Arianna starà ancora pensando di avermi nelle sue mani. Io, invece, sono qui dentro. Libero.
Nel labirinto c'è musica. Tamburi. Non cessano mai, tanto che dopo un po', passata la prima euforia, si finisce col non sentirli più, a meno di concentrarsi nell'ascolto o che improvvisino cambi di ritmo e tonalità. Tutto sommato una noia rilassante, discreta.
Niente odori. Anche ammettendo che ci fossero, e magari ci sono, credo che l'assuefazione li annullerebbe, un po' come succede per certi veleni allo stato gassoso: si muore senza accorgersi di nulla. Lisci lisci.
A ben pensarci, questa dell'assuefazione, dell'abitudine, è una costante del labirinto. Qualsiasi cosa si incontri, o si immagini di incontrare, dopo aver suscitato un'iniziale, speranzosa curiosità, sbiadisce. Evapora. Scompare. Flop. Grigio inodore insapore. Tum, tum, tum...
Credo di essere ancora vivo. Ma potrei essere morto e non saperlo? Vado avanti. O indietro. Ormai non ho più modo di verificare. Forse sto girando intorno e senza rendermene conto ripercorro gli stessi cunicoli che ho già attraversato. Oppure sono nuovi ma non so distinguerli dai vecchi. L'assuefazione. È così.
Cosa ci faccio ancora qui? Come esco? Ma voglio uscire? Di nuovo in mezzo a megafoni e telecamere? E poi, anche volendo, non ho più il filo. L'ho tagliato io stesso, lo so. Mi sono perso. Sarà il prezzo della libertà. Della libertà?