Racconto incluso nella raccolta "Consumare preferibilmente entro..."
Era notte e stavo seduto insieme a un gruppo di persone che non conoscevo. Formavamo un cerchio di chiacchiere svogliate.
Di colpo tutti si zittirono: dovevamo ascoltare “la grande poetessa”.
Una grassona con la pelle untuosa e spessa, i capelli biondastri collosi come un groviglio di spaghetti scotti, due fessure d’occhi nel gonfiore giallastro del viso, era comparsa all’improvviso.
Fui colto da un assurdo sgomento. Com’era brutta! Carnosa. Materiale.
Tutti gli altri erano sprofondati in un’attesa irreale.
Dopo un’ultima inspirazione, e mentre una mimica dolente le si scolpiva sul volto, la poetessa aveva cominciato a declamare versi in una lingua astrusa e sconosciuta.
L’orrenda accozzaglia di parole mi investì con la violenza di un pugno; l’attenzione compiaciuta, l’estasi rapita con cui il gruppetto degli spettatori sembrava bearsene, mi diedero una nausea subitanea.
Lei continuò. Continuò senza tregua, fino ad ansimare, a sbavarsi addosso. Da un momento all’altro avrebbe cacciato fuori l’anima. Stavo sempre peggio. Sudavo, boccheggiavo col suo stesso ritmo. Ormai gli altri, lo vedevo con i miei occhi, erano mummie condannate a quell’eterna adorazione… saremmo morti tutti, là dentro!
Incurante delle conseguenze, eruppi in un grido disperato: “Ora basta! Non si capisce niente!”
Lo squallido stanzone precipitò nel silenzio.
Tutti guardavano me, adesso. Tutti tranne lei, orgogliosa e risentita.
Tacevo. Una folla di pensieri si azzuffava nella mia mente. Solo lei, se avesse voluto, avrebbe potuto capirmi.
Mi feci forza. Uscii sotto le stelle e tornai a respirare.
lunedì 8 giugno 2009
martedì 12 maggio 2009
Due vecchi giocattoli
Da bambino avevo una chitarrina con una piccola manovella metallica che fuoriusciva lateralmente. Bastava girarla e la chitarrina suonava. Una musichetta da film western, di quelle strimpellate dai pianisti nei saloon pieni di fumo, di whisky e cow boys, “Oh Susanna”, qualcosa del genere.
Se giravo velocemente, la musichetta andava velocemente. Se rallentavo, rallentava. Ero padrone.
Potevo anche centellinarla, nota per nota. Dlen... dlin... lentissima, tanto che la melodia non si poteva più riconoscere. Note staccate, prive di senso.
A un certo punto, in un modo o in un altro, il guscio di plastica della chitarrina si ruppe.
Il meccanismo era semplice e affascinante.
La manovella faceva girare un cilindro che a sua volta trascinava un nastro, una specie di striscia di gomma disseminata di piccoli spuntoni, dei pallini, sempre di gomma. La disposizione di questi ultimi, apparentemente caotica, era invece la chiave segreta della musica: ogni pallino, giunto all'estremità del percorso del nastro, seguendo un ordine ben preciso, andava ad azionare la vibrazione della lamella di metallo che gli corrispondeva... ed emetteva la propria nota: dlen... dlin... dlon... ogni pallino aveva il suo posto, ed erano a turno. Perfetto.
Ne macchiai uno con l'inchiostro. Blu. Il blu è sempre stato il mio colore.
Gira, gira, ecco: il pallino blu è salito. Gira, gira, il blu avanza. Posso rallentare, e lui allora avanza piano. Poi, comunque, arriva alla fine, contro la sua lamella. Fa “dlen” e sparisce, passa sulla faccia inferiore, nascosta, del nastro. Fino al prossimo giro.
Poi c'era il caleidoscopio, altro aggeggio magico, affascinante, capace di farmi perdere la cognizione del tempo. Però lì era diverso.
A ogni scossetta, anche la più impercettibile, il disegno cambiava, ma non c'era verso di far tornare un disegno che s'era perso. Poteva assomigliargli, certo, ma non era mai lo stesso di prima. Lì non mi sentivo padrone di niente. Il caleidoscopio, in fondo, era crudele. Non perdonava.
Se giravo velocemente, la musichetta andava velocemente. Se rallentavo, rallentava. Ero padrone.
Potevo anche centellinarla, nota per nota. Dlen... dlin... lentissima, tanto che la melodia non si poteva più riconoscere. Note staccate, prive di senso.
A un certo punto, in un modo o in un altro, il guscio di plastica della chitarrina si ruppe.
Il meccanismo era semplice e affascinante.
La manovella faceva girare un cilindro che a sua volta trascinava un nastro, una specie di striscia di gomma disseminata di piccoli spuntoni, dei pallini, sempre di gomma. La disposizione di questi ultimi, apparentemente caotica, era invece la chiave segreta della musica: ogni pallino, giunto all'estremità del percorso del nastro, seguendo un ordine ben preciso, andava ad azionare la vibrazione della lamella di metallo che gli corrispondeva... ed emetteva la propria nota: dlen... dlin... dlon... ogni pallino aveva il suo posto, ed erano a turno. Perfetto.
Ne macchiai uno con l'inchiostro. Blu. Il blu è sempre stato il mio colore.
Gira, gira, ecco: il pallino blu è salito. Gira, gira, il blu avanza. Posso rallentare, e lui allora avanza piano. Poi, comunque, arriva alla fine, contro la sua lamella. Fa “dlen” e sparisce, passa sulla faccia inferiore, nascosta, del nastro. Fino al prossimo giro.
Poi c'era il caleidoscopio, altro aggeggio magico, affascinante, capace di farmi perdere la cognizione del tempo. Però lì era diverso.
A ogni scossetta, anche la più impercettibile, il disegno cambiava, ma non c'era verso di far tornare un disegno che s'era perso. Poteva assomigliargli, certo, ma non era mai lo stesso di prima. Lì non mi sentivo padrone di niente. Il caleidoscopio, in fondo, era crudele. Non perdonava.
mercoledì 6 maggio 2009
Percorsi
Su una spiaggia (Ulisse)
Uno sta su una spiaggia finché viene il giorno che non può più farne a meno: mette insieme quattro tronchi d’albero, una vela improvvisata, e parte.
Il sole e la salsedine gli induriscono la pelle; i giorni, i mesi, allungano i suoi capelli e infoltiscono un’ispida barba; la fame e la sete, le sorprese e le paure gli scavano l’anima e spalancano gli occhi.
In qualche modo, comunque, allo stremo delle forze, approda su un’isola i cui abitanti, nonostante parlino una lingua a lui sconosciuta, si rivelano ospitali.
Il nostro uomo, a conti fatti, non avrebbe di che lamentarsi: mangia, beve, dorme, ha dove ripararsi dalle piogge e dal sole, ha terra da coltivare, animali da cacciare e ragazze dolcissime per le sue notti.
Eppure, ed è questo il punto, verrà il giorno che non potrà più farne a meno: metterà insieme quattro tronchi d’albero, una vela improvvisata, e partirà.
* * *
Un viaggio (Sisifo)
22.361. Ventiduemilatrecentosessantuno chilometri in quattro anni. Tanto era il tempo ch'era passato da quando il giovane T, mettendosi sul groppone settantadue comode rate mensili, aveva comprato quel motorino.
Cominciò ad almanaccare su quella cifra.
Da Palermo a Catania erano all'incirca duecento chilometri, per Milano erano duemila; più o meno.
Minchia! Pensò. Ho fatto tanta strada che sarei potuto andare e tornare da Milano più di cinque volte. E magari, rinunciando a tornare, sarei potuto arrivare, che so, anche fino in Cina!
Era troppo.
Tutti quei chilometri, quella potenziale “Palermo-Pechino on the road”, se li era macinati senza accorgersene, giorno dopo giorno, da casa sua al lavoro e viceversa.
C'era una bella differenza... lui, ad esempio, si figurava un cavallo di razza e un mulo; quello imponente, tutto bardato e sfolgorante, questo dimesso, opaco... stupido.
E ci ragionava sopra.
Trascorrono gli anni. Nel frattempo T. non va in Cina. E nemmeno a Milano.
Il sole continua implacabile a sorgere e tramontare, e a lui, così gli sembra, non resta che continuare a fare avanti e indietro sui suoi stupidi muli.
Un giorno, fermo a un semaforo, gli torna in mente una frase: “Non è il cammino che è difficile, ma il difficile che è cammino”. Non ricorda neppure chi ne fosse l'autore. Stava stampata su una piccola cartolina che raffigurava delle cime di alberi con lo sfondo di un cielo azzurrissimo. Niente di speciale, ma da ragazzo quell'immagine gli piaceva, tanto che per un po' l'aveva tenuta appiccicata in un angolino dello specchio del bagno e la mattina, mentre ancora assonnato si radeva in fretta e furia, gli dava una sbirciata.
Certo, ormai T. è un uomo anziano. Da tempo non fa più caso alla faccenda dei chilometri. Sono un mucchio ed è inutile star lì a contarli. In ogni modo, immagina di averne accumulati così tanti che, a occhio e croce, avrebbe potuto fare il giro del mondo. Invece... invece niente. Solo e sempre avanti e indietro.
Un rabbioso colpo di clacson lo riscuote. Sovrappensiero, non s'è accorto che è scattato il semaforo verde. Deve ripartire. In fretta.
Cominciò ad almanaccare su quella cifra.
Da Palermo a Catania erano all'incirca duecento chilometri, per Milano erano duemila; più o meno.
Minchia! Pensò. Ho fatto tanta strada che sarei potuto andare e tornare da Milano più di cinque volte. E magari, rinunciando a tornare, sarei potuto arrivare, che so, anche fino in Cina!
Era troppo.
Tutti quei chilometri, quella potenziale “Palermo-Pechino on the road”, se li era macinati senza accorgersene, giorno dopo giorno, da casa sua al lavoro e viceversa.
C'era una bella differenza... lui, ad esempio, si figurava un cavallo di razza e un mulo; quello imponente, tutto bardato e sfolgorante, questo dimesso, opaco... stupido.
E ci ragionava sopra.
Trascorrono gli anni. Nel frattempo T. non va in Cina. E nemmeno a Milano.
Il sole continua implacabile a sorgere e tramontare, e a lui, così gli sembra, non resta che continuare a fare avanti e indietro sui suoi stupidi muli.
Un giorno, fermo a un semaforo, gli torna in mente una frase: “Non è il cammino che è difficile, ma il difficile che è cammino”. Non ricorda neppure chi ne fosse l'autore. Stava stampata su una piccola cartolina che raffigurava delle cime di alberi con lo sfondo di un cielo azzurrissimo. Niente di speciale, ma da ragazzo quell'immagine gli piaceva, tanto che per un po' l'aveva tenuta appiccicata in un angolino dello specchio del bagno e la mattina, mentre ancora assonnato si radeva in fretta e furia, gli dava una sbirciata.
Certo, ormai T. è un uomo anziano. Da tempo non fa più caso alla faccenda dei chilometri. Sono un mucchio ed è inutile star lì a contarli. In ogni modo, immagina di averne accumulati così tanti che, a occhio e croce, avrebbe potuto fare il giro del mondo. Invece... invece niente. Solo e sempre avanti e indietro.
Un rabbioso colpo di clacson lo riscuote. Sovrappensiero, non s'è accorto che è scattato il semaforo verde. Deve ripartire. In fretta.
* * *
Nel labirinto (né Ulisse, né Sisifo)
Ho provato a entrare nel labirinto. Da fuori è una costruzione insignificante, ma è l'unica cosa che c'è da vedere in questa città. È un cubo grigio seminterrato. Niente aperture, se si eccettua la porticina d'ingresso. A modo suo ha un fascino misterioso. Fra parentesi, la città è piena di telecamere neanche tanto nascoste, e di megafoni senza requie. Spero che almeno nel labirinto non ce ne siano.
Arianna, chiamiamola così, m'ha dato il filo. Bello robusto. Me l'ha attaccato alla vita con un inestricabile groviglio di nodi. Mi ha detto che l'altro capo lo teneva lei, per sicurezza.
Dopo un breve tratto il filo dev'essere finito. Tiravo ma non riuscivo più ad andare avanti. È stato gioco forza tornare fuori. Ho chiesto in giro. Tutti m'hanno detto che, se proprio ci tenevo, non c'era altro da fare. Così ho recuperato un coltello affilato, ho tagliato il filo di netto e mi sono ributtato dentro il labirinto. Arianna starà ancora pensando di avermi nelle sue mani. Io, invece, sono qui dentro. Libero.
Nel labirinto c'è musica. Tamburi. Non cessano mai, tanto che dopo un po', passata la prima euforia, si finisce col non sentirli più, a meno di concentrarsi nell'ascolto o che improvvisino cambi di ritmo e tonalità. Tutto sommato una noia rilassante, discreta.
Niente odori. Anche ammettendo che ci fossero, e magari ci sono, credo che l'assuefazione li annullerebbe, un po' come succede per certi veleni allo stato gassoso: si muore senza accorgersi di nulla. Lisci lisci.
A ben pensarci, questa dell'assuefazione, dell'abitudine, è una costante del labirinto. Qualsiasi cosa si incontri, o si immagini di incontrare, dopo aver suscitato un'iniziale, speranzosa curiosità, sbiadisce. Evapora. Scompare. Flop. Grigio inodore insapore. Tum, tum, tum...
Credo di essere ancora vivo. Ma potrei essere morto e non saperlo? Vado avanti. O indietro. Ormai non ho più modo di verificare. Forse sto girando intorno e senza rendermene conto ripercorro gli stessi cunicoli che ho già attraversato. Oppure sono nuovi ma non so distinguerli dai vecchi. L'assuefazione. È così.
Cosa ci faccio ancora qui? Come esco? Ma voglio uscire? Di nuovo in mezzo a megafoni e telecamere? E poi, anche volendo, non ho più il filo. L'ho tagliato io stesso, lo so. Mi sono perso. Sarà il prezzo della libertà. Della libertà?
Arianna, chiamiamola così, m'ha dato il filo. Bello robusto. Me l'ha attaccato alla vita con un inestricabile groviglio di nodi. Mi ha detto che l'altro capo lo teneva lei, per sicurezza.
Dopo un breve tratto il filo dev'essere finito. Tiravo ma non riuscivo più ad andare avanti. È stato gioco forza tornare fuori. Ho chiesto in giro. Tutti m'hanno detto che, se proprio ci tenevo, non c'era altro da fare. Così ho recuperato un coltello affilato, ho tagliato il filo di netto e mi sono ributtato dentro il labirinto. Arianna starà ancora pensando di avermi nelle sue mani. Io, invece, sono qui dentro. Libero.
Nel labirinto c'è musica. Tamburi. Non cessano mai, tanto che dopo un po', passata la prima euforia, si finisce col non sentirli più, a meno di concentrarsi nell'ascolto o che improvvisino cambi di ritmo e tonalità. Tutto sommato una noia rilassante, discreta.
Niente odori. Anche ammettendo che ci fossero, e magari ci sono, credo che l'assuefazione li annullerebbe, un po' come succede per certi veleni allo stato gassoso: si muore senza accorgersi di nulla. Lisci lisci.
A ben pensarci, questa dell'assuefazione, dell'abitudine, è una costante del labirinto. Qualsiasi cosa si incontri, o si immagini di incontrare, dopo aver suscitato un'iniziale, speranzosa curiosità, sbiadisce. Evapora. Scompare. Flop. Grigio inodore insapore. Tum, tum, tum...
Credo di essere ancora vivo. Ma potrei essere morto e non saperlo? Vado avanti. O indietro. Ormai non ho più modo di verificare. Forse sto girando intorno e senza rendermene conto ripercorro gli stessi cunicoli che ho già attraversato. Oppure sono nuovi ma non so distinguerli dai vecchi. L'assuefazione. È così.
Cosa ci faccio ancora qui? Come esco? Ma voglio uscire? Di nuovo in mezzo a megafoni e telecamere? E poi, anche volendo, non ho più il filo. L'ho tagliato io stesso, lo so. Mi sono perso. Sarà il prezzo della libertà. Della libertà?
domenica 19 aprile 2009
Maria
Sto bene, amico mio. Certo, bene come può starlo un uomo anziano.
Che dici? Un’ombra?
Lo so. La conosco.
Mi è difficile parlarne; non l’ho mai fatto.
Sai, un po’ come tutti, anch’io mi sento sempre attratto dai posti dove sono vissuto, le case e i loro dintorni, le persone… tornarci, rivederli, anche solo ricordarli, è un po’ come un tenersi insieme, aggrapparsi a un effimero filo di Arianna nell’illusione di riuscire a non perdersi.
Ebbene, c’è un posto che per me è molto di più.
È una storia lontana cinquant’anni, ma da allora è lì che torno, ogni giorno, ed è lì che continuerò a tornare per tutti i giorni che mi resterà da vivere.
Me ne andai come un ladro. Una mattina insolitamente fredda per quelle latitudini, mentre un mare cupo tormentava la prua del battello.
Sembrava che l’isola non si allontanasse mai. Distinguevo ancora il campanile che svettava allampanato fra le basse, coloratissime costruzioni di Calheta, le barche impaurite, ridossate alla meno peggio, la capanna di Elisio il matto… e laggiù la nostra casa.
Immaginavo Maria, in piedi dietro la finestra, stretta nelle sue stesse braccia come ogni volta che, nonostante mi affannassi a rassicurarla, veniva assalita dal presagio di quel momento. “Un giorno te ne andrai”, diceva, e si rifugiava nel patio, testarda e triste come una bambina.
Avevo vissuto quasi due anni a Maio. Un’isoletta di Capoverde.
Cinquant’anni fa era un luogo sperduto, selvaggio; una manciata di rocce gettata nell’oceano.
Sulle spiagge le uniche impronte, per centinaia e centinaia di metri, erano quelle fittissime degli uccelli marini e il solo rumore era lo sciabordio perpetuo delle onde. La sera, mentre il sole radente accendeva la sabbia di riflessi metallici, vedevi rientrare nel porticciolo le barche cariche di enormi pesci, di aragoste e polpi, e l’aria profumava.
Ero poco più che un ragazzo inquieto, quando arrivai. Avevo ventitre anni.
Il giorno dopo la laurea lasciai il diploma nello studio di mio padre, sulla scrivania, e scomparvi. Allora sarei fuggito a qualsiasi prezzo…
Maio fu per caso. Avrebbe potuto essere Santo Antao, o Fogo, comunque una delle più piccole. Un nascondiglio nel mondo.
Maria cantava nell’unica balera del paese. Uno stanzone fumoso coi tavolini e le sedie sgangherate, illuminato da sparute candele, in cui gli isolani movimentavano le serate dei fine settimana.
Era una creola con due grandi occhi verdi, tranquilli, dolcissimi, e un sorriso capace di lenire la ferita più profonda. Conosci la musica di Capoverde? È qualcosa che ti entra nel sangue. E Maria era quella musica. Era la dolce malinconia delle mornas, la vivacità, l’esuberanza delle coladeiras, e la selvaggia sensualità dei ritmi africani. Lo sentii dritto nelle viscere, distintamente, e lei, appena smise di cantare, si avvicinò, si sedette di fronte a me e disse soltanto: “nha nomi e Maria Margarida”.
Venne a casa mia quella sera stessa, come se fosse la cosa più facile e naturale del mondo. E non se ne andò più: “Sono la tua donna”, diceva.
Mi costrinsi a rimpatriare. Fu dopo aver ricevuto una lettera da Piero, l’unico che sapesse dov’ero. Mio padre s’era impiccato.
L’isola era ancora lì, davanti a me, vicina. Non riuscivo a voltarmi, a varcare il boccaporto e chiudermi alle spalle quei due anni di selvaggia bellezza. Fissavo la scia lentissima del battello e continuavo a dirmi che sarebbe bastato un balzo. Le gambe, la mente, ciascuna fibra del mio corpo mi implorava di saltare…
Mi sono sempre detto che tornai per mia madre, o per il senso di colpa del quale, per quanto provassi a convincermi che non aveva ragioni, non riuscivo a liberarmi. Chissà.
Via via anche la ricerca di una risposta ha perso significato. Maio era stata un momento, un attimo in cui infiniti particolari, tutti insieme, avevano congiurato per generare un sogno. Certo, la gioventù, l’energia, la passione travolgente di Maria, ma anche le più piccole cose, il soffio tiepido dell’aliseo, il canto delle megattere in amore, e quell’oceano sterminato…
Che dici? Un’ombra?
Lo so. La conosco.
Mi è difficile parlarne; non l’ho mai fatto.
Sai, un po’ come tutti, anch’io mi sento sempre attratto dai posti dove sono vissuto, le case e i loro dintorni, le persone… tornarci, rivederli, anche solo ricordarli, è un po’ come un tenersi insieme, aggrapparsi a un effimero filo di Arianna nell’illusione di riuscire a non perdersi.
Ebbene, c’è un posto che per me è molto di più.
È una storia lontana cinquant’anni, ma da allora è lì che torno, ogni giorno, ed è lì che continuerò a tornare per tutti i giorni che mi resterà da vivere.
Me ne andai come un ladro. Una mattina insolitamente fredda per quelle latitudini, mentre un mare cupo tormentava la prua del battello.
Sembrava che l’isola non si allontanasse mai. Distinguevo ancora il campanile che svettava allampanato fra le basse, coloratissime costruzioni di Calheta, le barche impaurite, ridossate alla meno peggio, la capanna di Elisio il matto… e laggiù la nostra casa.
Immaginavo Maria, in piedi dietro la finestra, stretta nelle sue stesse braccia come ogni volta che, nonostante mi affannassi a rassicurarla, veniva assalita dal presagio di quel momento. “Un giorno te ne andrai”, diceva, e si rifugiava nel patio, testarda e triste come una bambina.
Avevo vissuto quasi due anni a Maio. Un’isoletta di Capoverde.
Cinquant’anni fa era un luogo sperduto, selvaggio; una manciata di rocce gettata nell’oceano.
Sulle spiagge le uniche impronte, per centinaia e centinaia di metri, erano quelle fittissime degli uccelli marini e il solo rumore era lo sciabordio perpetuo delle onde. La sera, mentre il sole radente accendeva la sabbia di riflessi metallici, vedevi rientrare nel porticciolo le barche cariche di enormi pesci, di aragoste e polpi, e l’aria profumava.
Ero poco più che un ragazzo inquieto, quando arrivai. Avevo ventitre anni.
Il giorno dopo la laurea lasciai il diploma nello studio di mio padre, sulla scrivania, e scomparvi. Allora sarei fuggito a qualsiasi prezzo…
Maio fu per caso. Avrebbe potuto essere Santo Antao, o Fogo, comunque una delle più piccole. Un nascondiglio nel mondo.
Maria cantava nell’unica balera del paese. Uno stanzone fumoso coi tavolini e le sedie sgangherate, illuminato da sparute candele, in cui gli isolani movimentavano le serate dei fine settimana.
Era una creola con due grandi occhi verdi, tranquilli, dolcissimi, e un sorriso capace di lenire la ferita più profonda. Conosci la musica di Capoverde? È qualcosa che ti entra nel sangue. E Maria era quella musica. Era la dolce malinconia delle mornas, la vivacità, l’esuberanza delle coladeiras, e la selvaggia sensualità dei ritmi africani. Lo sentii dritto nelle viscere, distintamente, e lei, appena smise di cantare, si avvicinò, si sedette di fronte a me e disse soltanto: “nha nomi e Maria Margarida”.
Venne a casa mia quella sera stessa, come se fosse la cosa più facile e naturale del mondo. E non se ne andò più: “Sono la tua donna”, diceva.
Mi costrinsi a rimpatriare. Fu dopo aver ricevuto una lettera da Piero, l’unico che sapesse dov’ero. Mio padre s’era impiccato.
L’isola era ancora lì, davanti a me, vicina. Non riuscivo a voltarmi, a varcare il boccaporto e chiudermi alle spalle quei due anni di selvaggia bellezza. Fissavo la scia lentissima del battello e continuavo a dirmi che sarebbe bastato un balzo. Le gambe, la mente, ciascuna fibra del mio corpo mi implorava di saltare…
Mi sono sempre detto che tornai per mia madre, o per il senso di colpa del quale, per quanto provassi a convincermi che non aveva ragioni, non riuscivo a liberarmi. Chissà.
Via via anche la ricerca di una risposta ha perso significato. Maio era stata un momento, un attimo in cui infiniti particolari, tutti insieme, avevano congiurato per generare un sogno. Certo, la gioventù, l’energia, la passione travolgente di Maria, ma anche le più piccole cose, il soffio tiepido dell’aliseo, il canto delle megattere in amore, e quell’oceano sterminato…
sabato 21 marzo 2009
Buone notizie
Gaspare, che ha passato ottantadue anni con la zappa in mano e la schiena a rosolarsi sotto il sole, è in coma.
I medici dell'ospedale, dopo aver tentato di tutto, allargano infine le braccia e i familiari se lo riportano a casa, lo sistemato sul letto, con la bombola d'ossigeno, chiamano il prete e lo vegliano rassegnati all'inevitabile.
Nel piccolo appartamento al piano terra trascorrono così lunghi giorni scanditi dalla recita del rosario per i moribondi (quello che, nell'intenzione di chi prega, invoca un'agonia breve e una rapida ascesa al paradiso) e dai tristi preparativi come l'acquisto delle scarpe nuove e l'accordo col ristorante per il “cunsulo”, il cibo “consolatorio” da consumare dopo il trapasso.
Alle undici di sera del quarto giorno, improvvisamente, Gaspare apre gli occhi, si pone a sedere in mezzo al letto e dice: “haiu pitittu” (“ho fame”).
I familiari, increduli, esterrefatti (c'è anche qualcuno che sviene), gli portano un piatto di minestrina. Lui se la mangia tutta. L'indomani, però, dice chiaro e tondo che vuole salsiccia con patate al forno, il suo piatto preferito, e nessuno ha il coraggio di negarglieli.
Racconta. Ha attraversato una specie di tunnel e ha raggiunto un posto che assomiglia in tutto e per tutto a un luminoso giardino. C'erano figure piuttosto indistinte, luminose, con cui ha parlato. Erano i suoi cari, defunti. Stavano bene. E anche lui, lo ricorda senza incertezze, provava il più assoluto, divino benessere.
Gaspare è quello che si direbbe un “testimone attendibile”. Un vecchio contadino analfabeta, un uomo concreto. Non è mai stato un gran frequentatore della parrocchia e delle cose religiose, giusto a Messa per Natale, pasqua e qualche altra “festa grande”, e soprattutto non sa nulla delle esperienze, da più parti raccontate e del tutto sovrapponibili alla sua, di altre persone che, proprio come lui, si direbbero “tornate” da questa sorta di area di transizione fra vita e morte, da questo balcone affacciato su... sull'aldilà?
Buone notizie, insomma.
I medici dell'ospedale, dopo aver tentato di tutto, allargano infine le braccia e i familiari se lo riportano a casa, lo sistemato sul letto, con la bombola d'ossigeno, chiamano il prete e lo vegliano rassegnati all'inevitabile.
Nel piccolo appartamento al piano terra trascorrono così lunghi giorni scanditi dalla recita del rosario per i moribondi (quello che, nell'intenzione di chi prega, invoca un'agonia breve e una rapida ascesa al paradiso) e dai tristi preparativi come l'acquisto delle scarpe nuove e l'accordo col ristorante per il “cunsulo”, il cibo “consolatorio” da consumare dopo il trapasso.
Alle undici di sera del quarto giorno, improvvisamente, Gaspare apre gli occhi, si pone a sedere in mezzo al letto e dice: “haiu pitittu” (“ho fame”).
I familiari, increduli, esterrefatti (c'è anche qualcuno che sviene), gli portano un piatto di minestrina. Lui se la mangia tutta. L'indomani, però, dice chiaro e tondo che vuole salsiccia con patate al forno, il suo piatto preferito, e nessuno ha il coraggio di negarglieli.
Racconta. Ha attraversato una specie di tunnel e ha raggiunto un posto che assomiglia in tutto e per tutto a un luminoso giardino. C'erano figure piuttosto indistinte, luminose, con cui ha parlato. Erano i suoi cari, defunti. Stavano bene. E anche lui, lo ricorda senza incertezze, provava il più assoluto, divino benessere.
Gaspare è quello che si direbbe un “testimone attendibile”. Un vecchio contadino analfabeta, un uomo concreto. Non è mai stato un gran frequentatore della parrocchia e delle cose religiose, giusto a Messa per Natale, pasqua e qualche altra “festa grande”, e soprattutto non sa nulla delle esperienze, da più parti raccontate e del tutto sovrapponibili alla sua, di altre persone che, proprio come lui, si direbbero “tornate” da questa sorta di area di transizione fra vita e morte, da questo balcone affacciato su... sull'aldilà?
Buone notizie, insomma.
sabato 14 marzo 2009
Pietre
Bene, eccoci qua, dico sottovoce, e un gabbiano si volta a guardarmi un istante. Come se capisse.
Poi torna a fissare l'orizzonte con l'aria di uno che non ha voglia di nulla.
È una mattina grigia, il mare sciaborda pigro.
Male, molto male, dico sottovoce, e il gabbiano si volta di nuovo a guardarmi, ma stavolta resta lì, con gli occhietti fissi su di me e la mia bottiglia.
Che ci fai tutto solo? gli chiedo; dove sono gli altri?
Lui piega appena un po' la testa.
…
Sono a pezzi.
Lascio perdere il gabbiano, mi siedo sui ciottoli del bagnasciuga. L'umidità trapana fino alle mutande, fredda ghiacciata.
Neanche una barca, il mare un deserto.
Lui sempre lì a fissarmi. Sembra vecchio, non mi intendo di gabbiani, ma questo sembra proprio un vecchio gabbiano stanco; immobile, pesante, quasi gonfio.
Tiro giù un altro sorso. Giocherello coi ciottoli, ne butto qualcuno a mare. Piccole pietre levigate biancastre che stanno qua.
Ehi, gli faccio, ci pensi che magari mille anni fa qui era tutto uguale come adesso tranne che noi due non c'eravamo? Mica siamo pietre, noi.
Non risponde. Un gabbiano non può rispondere. È tornato a guardare il mare.
Sai di Jonathan, no? Lo sanno tutti: “Il gabbiano Jonathan Livingston”, un best seller pazzesco, un eroe di gabbiano, il supergabbiano! Non gli bastava volare, capisci? No, troppo poco, troppo facile. Andare avanti, andare oltre il limite, ecco quello che si dovrebbe fare, caro mio.
Ero poco più che un ragazzo quando lo lessi. E lo amai. Il mondo scintillava, allora, e io morivo dalla voglia di buttarmici dentro. Tutto liscio, tutto bello…
E tu? Tu c'hai provato, almeno?
Non ti ci vedo proprio. Ti sarai accontentato di svolazzare qua e là alla meno peggio, giusto il necessario per acchiappare la tua sardina quotidiana e tornare a sonnecchiare.
Butto qualche altro ciottolo in acqua. Pluf. Plufff.
Ho la gola asciutta. Bevo ancora. Lancio in mare la bottiglia vuota. La corrente comincia a trascinarla mollemente verso il largo. La seguo con lo sguardo, ogni tanto un luccichio, sempre più lontano.
Chissà che fine avrà fatto... dico di Jonathan. Quanto vivete voi gabbiani? Un anno? Dieci? Cento?
Il gabbiano è ancora lì, impassibile. Una statua.
Pluf.
Plufff.
Poi torna a fissare l'orizzonte con l'aria di uno che non ha voglia di nulla.
È una mattina grigia, il mare sciaborda pigro.
Male, molto male, dico sottovoce, e il gabbiano si volta di nuovo a guardarmi, ma stavolta resta lì, con gli occhietti fissi su di me e la mia bottiglia.
Che ci fai tutto solo? gli chiedo; dove sono gli altri?
Lui piega appena un po' la testa.
…
Sono a pezzi.
Lascio perdere il gabbiano, mi siedo sui ciottoli del bagnasciuga. L'umidità trapana fino alle mutande, fredda ghiacciata.
Neanche una barca, il mare un deserto.
Lui sempre lì a fissarmi. Sembra vecchio, non mi intendo di gabbiani, ma questo sembra proprio un vecchio gabbiano stanco; immobile, pesante, quasi gonfio.
Tiro giù un altro sorso. Giocherello coi ciottoli, ne butto qualcuno a mare. Piccole pietre levigate biancastre che stanno qua.
Ehi, gli faccio, ci pensi che magari mille anni fa qui era tutto uguale come adesso tranne che noi due non c'eravamo? Mica siamo pietre, noi.
Non risponde. Un gabbiano non può rispondere. È tornato a guardare il mare.
Sai di Jonathan, no? Lo sanno tutti: “Il gabbiano Jonathan Livingston”, un best seller pazzesco, un eroe di gabbiano, il supergabbiano! Non gli bastava volare, capisci? No, troppo poco, troppo facile. Andare avanti, andare oltre il limite, ecco quello che si dovrebbe fare, caro mio.
Ero poco più che un ragazzo quando lo lessi. E lo amai. Il mondo scintillava, allora, e io morivo dalla voglia di buttarmici dentro. Tutto liscio, tutto bello…
E tu? Tu c'hai provato, almeno?
Non ti ci vedo proprio. Ti sarai accontentato di svolazzare qua e là alla meno peggio, giusto il necessario per acchiappare la tua sardina quotidiana e tornare a sonnecchiare.
Butto qualche altro ciottolo in acqua. Pluf. Plufff.
Ho la gola asciutta. Bevo ancora. Lancio in mare la bottiglia vuota. La corrente comincia a trascinarla mollemente verso il largo. La seguo con lo sguardo, ogni tanto un luccichio, sempre più lontano.
Chissà che fine avrà fatto... dico di Jonathan. Quanto vivete voi gabbiani? Un anno? Dieci? Cento?
Il gabbiano è ancora lì, impassibile. Una statua.
Pluf.
Plufff.
mercoledì 18 febbraio 2009
Nuvola Rossa
Per i winchester dei nordisti, bene appostati sulle torrette di guardia, è un giochetto da ragazzi: quelli, gli indiani, i loro cavalli, sono carne da macello.
Si buttano avanti a ondate, traboccanti di coraggio e di rabbia, ma come le ondate si spezzano su una scogliera, così loro crepano ai piedi delle palizzate.
Gli indiani, si sa, non si arrendono. Gli indiani, prima di sera, saranno morti tutti.
Andrà così anche questa volta. È solo così che può andare.
Lo splendido baio, vedo il suo sudore denso, biancastro, vedo le narici e gli occhi spalancati dal terrore, ha uno scarto brusco, imprevedibile.
Nuvola Rossa è stato sbalzato a terra, la pallottola che l’avrebbe ucciso s’è conficcata profonda nella sabbia.
Tutt’intorno grida selvagge si mescolano al sangue, al sibilo dei proiettili. Sono urla di dolore e di vendetta.
Lui potrebbe acquattarsi, restare nascosto dietro il cespuglio, attendere la notte e forse, col favore del buio, avrà salva la vita.
Ma Nuvola Rossa è un guerriero, un guerriero vero. Non sa che farsene di una vita da schiavo.
Dà fuoco al cespuglio, allora, e avvolta una pezza oleosa attorno alla punta di una freccia, la incendia. Tende il potente arco con tutte le sue forze, lo tende fin quasi a spezzarlo, e infine scaglia la freccia infuocata.
L’esempio del Grande Capo riempie di coraggio i suoi uomini, si diffonde fulmineo. In breve un diluvio di fuoco si abbatte su Fort Yukon.
I nordisti non hanno scampo, sono topi in trappola. Molti bruciano vivi; quelli che tentano la sortita cadono massacrati dai tomawack, i pugnali fanno scempio di scalpi.
Il tramonto, finalmente, si sta tingendo di rosso.
“Ehi! Cos’è questa puzza di bruciato? Che stai combinandooo?” Gli urlacci provengono dalla cucina.
Svelto, faccio sparire la scatola dei fiammiferi e rovescio un bicchiere d’acqua sul piccolo incendio. Sono eccitato, felice. Fino a oggi, da sempre, avevo automaticamente continuato a riprodurre, coi miei soldatini, gli inesorabili massacri di indiani che i tanti film western mi hanno insegnato. Stasera, esausto, mi addormenterò sulla pelle dell’orso perché in un mondo infestato da visi pallidi e lingue biforcute, ho scoperto che io, in realtà, sono un selvaggio. Un coraggiosissimo, invincibile selvaggio con la pelle rossa.
– L’autore… dorme in una fotografia del 1960 -
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