"Lo scirocco dura tre giorni" è il mio contributo a un laboratorio di scrittura condotto circa dieci anni fa a Palermo da Luigi Bernardi (purtroppo scomparso di recente) e organizzato da "Libr'aria", scuola di scrittura diretta dalla mia amica Beatrice Monroy.
Con riferimento alla ben nota "Scomparsa di Patò" di Andrea Camilleri (che aveva a sua volta preso spunto da un fugace accenno di Leonardo Sciascia nel finale di "A ciascuno il suo"), Bernardi propose a ciascuno di noi di immaginare e raccontare altre possibili... scomparse di Patò.
Ne è nata una pubblicazione ("Altre scomparse di Patò" ed. della Battaglia, 2003) che credo sia praticamente introvabile.
Un vero peccato!
Il libro, oltre al mio, contiene i racconti di Mari Accardi, Rossella Caleca, Adele Cammarata, Claudia Cincotta, Annalisa Conte, Beatrice Monroy, Simona Dolce, Rosario Palazzolo, Luca Panzarella, Rino Parlapiano, Marco Pomar e Caterina Spina.
LO SCIROCCO DURA TRE GIORNI
Erano due giorni che faceva un caldo
africano. L'asfalto della piazza sembrava sul punto di squagliarsi in
uno stagno nero e bollente quando , con appena quaranta minuti di
ritardo, arrivò la corriera di mezzogiorno.
Era il segnale: i vecchi del paese,
ciascuno con la sua coppola d'ordinanza, si riscossero dal torpore
che li avvolgeva, si alzarono dalle panchine sulle quali, fino ad un
attimo prima, sembravano mummificati e, senza sciuparsi in superflui
saluti, si disposero a ar ritorno alle loro case.
Fecero a tempo, comunque, a veder
scendere dalla corriera una giovane donna che, come accadeva per
chiunque non si fosse mai visto prima in paese, destò la loro
curiosità.
La donna, una mora alta e sottile,
attendeva che l'autista venisse ad aprire il portellone del
bagagliaio e intanto, incurante delle improvvise folate di scirocco
che la scumminavano tutta, volgeva uno sguardo lento, intenso, torno
torno alla piazza che dal canto suo, ai vecchi così sembrava, aveva
ben poco da essere guardata con tanta attenzione.
Contornata da basse palazzine, era una
piazza come ce n'è in tanti paesi: una chiesa, un paio di bar coi
tavolini sparpagliati sul marciapiedi prospiciente, l'edicola, la
sede della proloco, il piccolo ufficio postale e, novità dell'anno
precedente, una fontana che dal giorno successivo alla sua pomposa
inaugurazione non aveva più zampillato una sola goccia d'acqua e
aveva dovuto adattarsi a sedile per le schiffarate ore serali dei
giovani del paese.
Recuperata la grossa valigia, una di
quelle moderne che si trascinano appresso come cagnolini al
guinzaglio, la mora puntò sulla casa che una piccola insegna
battezzava come "Pensione Geraci - cucina casalinga", suonò
il campanello e dopo un breve scambio di battute scomparve dentro il
portone.
Ai vecchi, che nel frattempo erano
rimasti impalati a guardarla, non restò altro che andarsene a
pranzo.
La signora Rosetta Alaimo, vedova
Geraci, era un'esuberante cinquantenne che la precoce scomparsa del
marito e la mancanza di figli avevano condannato a una solitudine cui
lei non si sarebbe mai rassegnata. Quella sua pensione, però, tolto
il mese di agosto, con gli emigrati che tornavano a trascorrere le
ferie e qualche villeggiante che si faceva vivo, non era davvero una
gran fonte di guadagno né di compagnia. Accolse l'inattesa cliente
con festosa premura e quando Nina, così disse di chiamarsi la
giovane donna, le comunicò addirittura la probabilità che la sua
permanenza potesse protrarsi a lungo, la signora Rosetta si sentì
tanto contenta che fu quasi sul punto di abbracciarla e, dopo averla
accompagnata nella sua camera, passò il resto della giornata
appresso ai fornelli.
Quella sera, riassaporando una sublime
caponata e la sasizza coi cavuliceddi, Nina, di solito schiva e
introversa, si sentì cosi deliziata che finì con l'accennare
qualcosa sui motivi che avevano condotto "una cosi bedda
picciotta, e poi tutta sola!" fino a quel paesino arroccato
sulle montagne: "Non so, dev'essere perché negli ultimi tempi
mi sono successe tante di quelle cose.. mah, forse sono qui solo per
cercare un po di tranquillità".
Tanto bastò alla signora Rosetta per
prendere a raffigurarsi le vicende così amare e tormentate che a un
tratto, come per porvi un qualche rimedio, ma anche nella speranza
che ciò prolungasse la conversazione, si ricordò di avere
ancora in serbo qualcuna delle sue specialissime cassatelle di
ricotta.
Nina, però, a quel punto era davvero
sazia e preferì evitare la troppa confidenza, disse di sentirsi
stanca della sua lunga giornata... e la Geraci capì che di quelle
briciole, almeno per il momento, doveva accontentarsi.
L'indomani mattina, per l'infallibile
regola dei tre giorni, l'africano continuò a tirare e, se era
possibile, si fece ancora più caldo e arraggiato.
Affacciata dietro ai vetri della
finestra che dava sulla piazza, Nina faceva i conti con una notte
trascorsa insonne fra mille pensieri, e con la propria immagine che
gli stessi vetri riflettevano e a tratti, suo malgrado, le
imponevano.
Aveva davvero un'aria terribile: i
capelli appiccicati dal sudore, il viso sbattuto, pallido, gli occhi
annegati in due fosse profonde; e non stava meglio il suo corpo, che
le sembrava una canna secca spezzata dal vento.
La piazza, ancora deserta nell'attesa
del richiamo della prima messa domenicale, era altrettanto desolata:
un pulviscolo rossastro, sahariano, la soffocava e una banda di
cartacce impazzite si divertiva a vorticare da una parte all'altra.
Cominciò a temere d'essersi sbagliata.
Nei tormentati mesi precedenti la sua
decisione, aveva pensato che tornando in paese, ora finalmente donna,
l'impulso più immediato sarebbe stato quello di andare in giro a
ritrovare i luoghi e le persone fra cui era nata e cresciuta e che
ciò fosse davvero il rimedio per saldare la frattura fra quelle che
lei chiamava "le mie due vite", la vecchia e la nuova.
Adesso, suo malgrado, riusciva solo a
pensare i starsene chiusa in quella camera e il paese, che per tanti
anni aveva vissuto come un'angusta prigione, ora se lo sentiva
estraneo, indifferente e inutile.
Scese, comunque, e raggiunse la cucina
dove una Rosetta più mattiniera del solito aveva già apparecchiato
per la colazione.
"Buongiorno! Abbiamo riposato
bene?" le chiese, ma se ne pentì un istante dopo giacché
l'aspetto di Nina diceva chiaro e tondo tutto il male che era
possibile dire della sua nottata.
Ancora una volta, come se la Geraci
mischiasse i cibi con qualche magica sostanza, il caffellatte, i
biscotti caserecci e la generosa porzione di cassata al forno fecero
il prodigio di confortarla.
"Pensavo, venendo quassù, di
prendere in affitto un locale e aprire un piccolo centro d'estetica;
sa, ho un diploma di visagista e..."
"Ma è 'na beddissima pinsata,"
saltò su la Geraci, tutta contenta dell'insperata "resurrezione"
della sua ospite, "eh! Una volta non ce lo saremmo manco sognato
di andare firriando tutte cunzate come le picciottelle di oggi, ma a
furia di riviste e televisione... anche qui, se metti 'sta putìa di
biddizza, avrai 'na gran fudda dietro la porta!"
Poi, dopo una rapida ricognizione
mentale e come se fosse già cosa fatta, sentenziò che per le
dimensioni, l'ubicazione e il costo senz'altro ragionevole, a Nina
sarebbe andato a pennello un magazzino di Via Garibaldi, lì a due
passi dalla piazza. L'unico problema, ma per lei che era forestiera
non si sarebbe dovuto porre in termini di problema, poteva essere
costituito dal fatto che quel locale, chiuso e inutilizzato da nove
anni prima, era stato l'ufficio di un certo Antonio Patò, un giovane
che, appunto nove anni prima, era misteriosamente scomparso.
La scomparizione, come la Geraci si
premurò di raccontare, avvenne durante le recite del Mortorio,
cioè della Passione di Cristo secondo il cavalier D'Orioles.
Antonio Patò, che faceva Giuda, era
scomparso, per come la parte voleva, nella botola che puntualmente si
aprì: solo che (e questo non era nella parte) da quel momento
nessuno ne aveva saputo più niente...e, come sempre accade per tutto
ciò di cui gli uomini non riescono a farsi una plausibile ragione,
anche su questa vicenda di Patò aveva finito col germogliare una
selva di dicerie e superstizioni. S'era detto di tutto e il contrario
di tutto, ma le uniche cose certe restavano la scomparsa del
giovanotto e il fatto che nessuno aveva più avuto il fegato di
rilevare la locazione di quel suo ufficetto.
Certo, doveva restare anche e
soprattutto la disperazione dei genitori e lei, la Geraci, pure che
non aveva avuto figli, se la immaginava per filo e per segno.
Antonio, per giunta, era l'unico figlio maschio dei Patò; quel
maschio che suo padre s'era tanto ostinato a pretendere, che la
povera signora Maria, prima di riuscire a farglielo, s'era già
dovuta sobbarcare quattro gravidanze e altrettante figlie "una
all'anno e tutti fimmini!"
Si raccontava, continuò la Geraci, che
quando Antonio nacque il padre talmente impazzì dalla felicità che
nei giorni seguenti, e forse, di tanto in tanto, anche quando il
bambino fu più grandicello, non faceva altro che rimirarselo e
controllare che ce l'avesse davvero, quella "cosa"..., ma
questa, a ben riflettere, doveva essere la solita esagerazione di
qualche mala lingua.
Aveva smesso di mangiare, Nina,
restando lì con la bocca aperta e gli occhi imbambolati, e soltanto
quando la Geraci si zittì, fece un sussulto e si riscosse come se
un'improvvisa secchiata d'acqua l'avesse colta nel pieno del sonno.
Si alzò e, sussurrata qualche parola, salì in camera sua.
Non era cambiato niente, non alla Messa
del mattino, almeno. Don Peppino sbrodolava la predica come sempre,
cioè per una buona mezz'ora e come se davvero dovesse bacchettare le
sue povere parrocchiane per chissà quali misfatti.
Quelle, dal canto loro, se ne stavano
lì in buon ordine, a incassare accuse di avarizia, ingordigia,
lussuria e quant'altro, con le facce compunte e il pensiero
concentrato su tutte le faccende che le aspettavano al varco tornando
a casa.
Nina s'era fatta la doccia, s'era
aggiustata meglio che aveva potuto e ora, seduta in un banco della
chiesa, subiva le sbirciate delle altre donne: era un'estranea.
Lasciò Don Peppino infervorato
nell'ennesima filippica e uscì nella piazza abbagliata.
A dispetto del caldo feroce anche gli
altri riti domenicali si stavano celebrando regolarmente.
Riparati dagli ombrelloni, i tavolini
dei bar s'erano affollati; vi fioccavano i caffè, gli spongati e
quant'altro; un gruppetto di uomini davanti all'edicola si
accapigliava sulle ultime notizie sportive, i vecchi erano tornati a
imbalsamarsi sulle panchine.
Nina decise per il "Centrale",
preferì entrare e ordinò una granita di caffè. C'era un nuovo
barista, uno che non aveva mai visto. Da un tavolino alcuni picciotti
ridacchiavano e la guardavano con insistenza imbarazzante. Riconobbe
"Calogero biddizza" che aveva messo su una bella panza, e
quella cosa inutile di Sasà Miceli sempre attaccato alla macchinetta
del videopoker.
Le venne la nausea.
Il cortile dietro la chiesa s'era
gremito di ragazzini; vederli giocare e ricordare fu un tutt'uno.
A pallone era una schiappa completa;
per quanto si sforzasse, quella smania di rivaleggiare, di correre e
sudare nella polvere, restava estranea alla sua intima natura. Quando
smise perfino di provarci, poi, dovette accollarsi gli sfottò dei
coetanei e la cocente delusione di suo padre.
"Ma è possibile mai?"
sbraitava, "all'età tua manco posavo i piedi in terra, io. E
tu? Tu non t'affrunti? Pari 'na femminedda, pari".
Lasciò l'improvvisato campo di calcio,
riprese a gironzolare per le viuzze del paese e per quelle
imponderabili della sua memoria.
Era appena adolescente; suo padre
stabilì che era ora che diventasse "un vero masculo" e se
lo portò giù in città: "A fimmine," disse.
Fece del proprio meglio per nascondere
l'appagno e cercare di compiacerlo. Oltre a non diventare il masculo
che doveva, però, quel giorno si persuase definitivamente di essere
una femmina che era nata, per sbaglio, con un corpo da maschio.
Il portoncino al civico 8 di Via
Garibaldi era serrato ma la targa d'ottone con l'incisione "Antonio
Patò - geometra", sebbene opacizzata e scurita, faceva ancora
la sua figura.
Nina realizzò d'essere di fronte a
quella targa quando, sovrappensiero, si sorprese a frugarsi le tasche
e a non trovare la chiave.
Ci sono gesti che a furia di ripetersi,
anche se uno non li compie più, rimangono nascosti dentro, pronti a
rispuntare fuori appena gli si offra la minima occasione.
"La scomparsa di Patò!"
mormorò.
Ed erano sorte tante dicerie? E
superstizioni, addirittura?
Ma se uno sparisce, congetturò per
l'ennesima volta, e insieme a lui spariscono anche una valigia piena
di roba e tutti i risparmi che aveva accumulato, ci vuole proprio
molto a capire cosa è successo?
Era chiaro che i suoi s'erano ben
guardati dal fare due più due o, se anche l'avevano fatto, avevano
dovuto scegliere di tener nascosto il risultato. Sorrise amaro e
tornò a macinarsi con gli altri soliti interrogativi...e a darsi le
solite risposte.
Sapevano che aveva deciso di
scomparire? Forse sì; quasi certamente sì.
E sapevano perché? Su questa domanda,
per quanto avesse cercato di accantonarla e non riuscisse a
comprendere il proprio accanimento, Nina si scervellava da anni.
Ora, davanti a quel portoncino, le
sembrò che a un tratto tutto il suo ragionamento si facesse limpido
come un panorama appena lavato da un acquazzone.
"Antonio Patò - geometra".
"Ma certo! Quella non era una targa: era una lapide!
Non si sarebbe fatta meraviglia, in
quel momento, di scoprire che suo padre continuasse a pagare
l'affitto di quella sorta di ufficio sepoltura. Avevano preferito
darlo per morto, "scumparso", non lo cercarono nemmeno, il
povero Antonio, o tutt'al più fecero finta d'averlo fatto.
Ma certo: era mille volte meglio
piangerlo per morto ma "masculo", che saperlo vivo e....
All'improvviso il ricordo sepolto
esplose nella mente di Nina.
Era mattina. Sua madre doveva aver
perso la corriera e rincasò prima del previsto, senza produrre il
minimo rumore. Aprì la porta della stanza e lo sorprese davanti allo
specchio con indosso la sottana di una delle sue sorelle, un paio di
antichi orecchini d'argento e il rossetto che gli infuocava le
labbra.
Le dava le spalle, sicché i loro
sguardi s'incrociarono rimbalzando sulla superficie dello specchio.
Rimasero in silenzio eterno e lui sentì che il sangue gli si era
ghiacciato. Poi sua madre aveva richiuso la porta e fino al giorno in
cui, calato nella parte di Giuda, decise di scomparire, lei non fece
mai più cenno a quell'episodio.
La trattoria della "Zà Sara"
era tutta un vociare; i tavoli erano gremiti e l'aria, satura degli
odori della cucina, era appena smossa dal pigro movimento delle pale
dei ventilatori.
Un cameriere si premurò di pilotarla
nella seconda saletta e le indicò l'unico tavolino che era rimasto
libero.
Nina si sedette e subito li vide.
Curvo, rinsecchito, suo padre era
diventato un vecchio. L'aveva lì davanti, a pochi metri di distanza:
sedeva a capotavola, come sempre, ma non sovrastava più nessuno.
Sua madre gli sedeva accanto, seria e
rigorosa nel suo vestito scuro. Era ancora bella, i capelli ingrigiti
raccolti dietro la nuca lasciavano scoperto il collo sottile ed
energico. Indossava il paio di orecchini d'argento che Nina
riconobbe.
C'erano Rosalia e Vincenza con suo
marito. Un altro uomo sedeva al capo del tavolo di fronte al padre e
c'erano anche i bambini... tre, quattro picciriddi che impegnavano i
grandi in continui e inutili richiami.
Avevano quasi finito di pranzare, il
cameriere stava prendendo l'ordinazione per i caffè.
Guardava verso quel tavolo, Nina, ma
soprattutto non riusciva a staccare gli occhi dal profilo di sua
madre.
Il suo sguardo dovette essere cosi
insistente, così ingombrante, che la madre infine si volse e lo
trovò. Strinse appena le labbra, forse impallidì, fu un istante,
nient'altro.
Nina restò lì, seduta, a un tratto
impermeabile a tutta la confusione che regnava nella taverna.
Dentro di lei s'era fatto silenzio; il
tempo, i pensieri, gli oggetti stessi stavano sospesi.
"....signorina....signorina, mi
scusi, ha scelto cosa ordinare?"
Teneva ancora il menù in mano e quella
voce sembrava giungerle da molto lontano.
"Si sente bene, signorina?"
Il cameriere e poi il chiacchierio
della gente, i tavoli e tutto ciò che la circondava ripresero infine
lo spazio della sa coscienza e la ricondussero lì dove era rimasta.
Ordinò qualcosa e quando quello se ne
fu andato, Nina si accorse che il tavolo di fronte a lei era vuoto.
Bottiglie smezzate, piatti sporchi, tazzine e tovaglioli v'erano
abbandonati come residui sul campo di una battaglia appena conclusa.
Un piccolo pacchetto, un fazzolettino
di carta che avvolgeva qualcosa, era ora poggiato su un angolo del
suo tavolo.
Nina lo guardava incuriosita, sfiorata
da un desiderio e da un timore incomprensibili, istintivi che la
paralizzavano. Si decise a prenderlo, lo tenne ancora a lungo fra le
mani scostando e riaccostando i lembi di carta ripiegati, quasi
aspettando che il coraggio necessario le crescesse dentro. Infine lo
aprì, e il cuore le scappò via impazzito.
L'indomani, come previsto, s'era
puntualmente girato a maestrale.
Spazzata via la rossastra velatura dei
giorni precedenti, il cielo si stava accendendo di un azzurro
sfacciato e le nuvole vi si rincorrevano bianchissime, inseguite dal
vento fresco che veniva dal mare.
La piazza, stanca della nottata e della
calura dei giorni precedenti, dormiva ancora fra le saracinesche
abbassate, gli ombrelloni chiusi, la fontana asciutta.
La corriera delle sei e mezzo, quella
dei pendolari del lunedì, la disturbava appena col borbottio del
motore e quando fu l'ora, fece uno sbuffo nero, puzzolente e si
convinse a partire.
Nina sedeva accanto a un finestrino, il
ciglio della strada le scorreva davanti agli occhi.
Attese di leggere il cartello che, a
nome del paese, augurava "buon viaggio e arrivederci a presto";
poi si aggiustò più comodamente, chiuse gli occhi e scivolò nel
sonno accarezzandosi un orecchino d'argento.