La notissima "Vucciria" di Renato Guttuso
Oggi la Vucciria ha ben poco del "mercato".
Ballarò lo è ancora.
Ballarò
La
signora della Palermo–bene non frequenta abitualmente quella sorta
di souq
marocchino che è il mercato di Ballarò (“al
balhara” per gli
arabi... stavano qui mille anni fa), ma può venirle voglia di
andarci, di tanto in tanto, magari con un’amica, perché fa
esotico. In certi ambienti, poi, il “vecupevo
delle matvici cultuvali”
o il “contatto con la
vealtà più vevace”
della nostra città sono roba molto chic, rispetto alla quale potersi
raccontare come protagonisti garantisce, fra un sorso di tè e un
pasticcino, sicuri apprezzamenti salottieri.
E
poi, vogliamo mettere… l’esaltante commistione fra ribrezzo per
la sporcizia (può capitare anche qualche grosso sorcio sotto i
cassonetti della munnizza), l’allerta per i sempre probabili
scippi, i brividi gelati su per la schiena per lo sguardo del giovane
pescivendolo che in tre secondi ti mette incinta in mezzo a quel
casino di colori odori rumori, l’imbarazzo nella ridicola
obbligatoria recita della trattativa sul prezzo (certe cose, se non
le hai nel sangue, e se non hai bisogno veramente
di risparmiare i soldi,
perché veramente
non ce li hai, non le
puoi fare come di giusto!), la curiosità per tanti piccoli sketch di
diversa pittoresca umanità (la popolana che cafudda un timpulune da
antologia sul cozzo del picciriddu di tre anni che insiste a tirarle
la sottana perché vuole accattata a
pullanchella
– il vecchietto che parla col panellaro e gli dice che “Bin
Laden allora è vero sbirru!”…),
il martirio dei timpani per gli improvvisi agguati di Tony Bruni o di
Yano Zappulla scatenati dagli altoparlanti dei venditori di cassette
pirata…
La
signora della Palermo – bene, nonostante che abbia rinunciato
all’oro e abbia scelto un abbigliamento comodo e pratico, è
comunque piuttosto riconoscibile anche da parte di un profano che la
osservi ad occhio nudo… figuriamoci come risalterà vistosa
attraverso i raffinati detector dei putiari
e degli ambulanti!
È
un fatto di mille indizi, è inevitabile.
Anche
se avesse un maglione vecchio e un gonna dozzinale, le scarpe di un
negozietto di periferia invece delle Tod’s che indossa, se avesse
rinunciato del tutto al fondo tinta, a un filo impercettibile di
rimmel, all’appuntamento settimanale con Theo il parrucchiere, alla
regolare scontata perfetta cura delle mani, al Breil da battaglia al
polso… bè, anche allora uno qualsiasi di questi putiari
riconoscerebbe la sua vera appartenenza da un semplice gesto o da
un’alzata improvvisa del sopracciglio.
La
signora si avvicina dunque ad un banco di frutta e verdura e,
aspettato pazientemente il proprio turno cercando di toccare qua e là
come vede che fanno tutti, chiede due chili di pesche montagnole.
Il
fruttivendolo prepara un bel coppo di carta e lo riempie di pesche
pigliandole a due a due. La signora nota che ogni tanto finisce nel
coppo qualche frutto ammaccato, mezzo marcio per dirla tutta, e in un
impeto che non le appartiene ma che il mercato ha saputo
trasmetterle, esclama: “Senta, mi scusi, ma mi sta dando anche le
pesche mavce!” Il fruttivendolo, un uomo in canottiera, bruno e
tozzo, si ferma, ancora chino sulla cassetta, e la guarda fisso da
sotto in su. Poi si rialza, molto lentamente, sempre tenendola lì
inchiodata con quei suoi occhi di carbone, e dice: “Signora bella!
E che è? I cose frarice l’aviemu a ddari tutte all’avutri?”
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